Gli invisibili del titolo sono gli operai dell’Ilva di Taranto (e tutti gli operai), a cui questo volumetto di Fulvio Colucci e Giuse Alemanno cerca di ridare corpo e cittadinanza. Non è un romanzo: è giornalismo e testimonianza. Eppure, a suo modo, è impregnato di letteratura. Perché Colucci, redattore de «La Gazzetta del Mezzogiorno», i suoi reportage li scrive con stile e respiro non semplicemente cronachistici. E poi spesso si limita ad aprire le virgolette ai protagonisti, e uno che racconta la sua storia cos’è se non letteratura. Alemanno, invece, scrittore lo è, ma è anche operaio Ilva, e qui si destreggia fra i due ruoli dimenticandosi giustamente di segnarne i confini.
Gli operai di questo libro sono invisibili al resto della città, che pure è più piccola della fabbrica e di gente che lavora lì dentro ne ha praticamente in ogni famiglia. Invisibili, a maggior ragione, al resto del Paese: avete mai sentito parlare dei 6.700 (dico: 6.700!) cassintegrati nel 2009? Invisibili perché non più di moda, perché non più classe sociale ma semplice somma di individui senza voce. Invisibili per la distrazione o il colpevole disinteresse di chi sta fuori. Invisibili, infine, perché non sanno o non vogliono più raccontarsi. Ed è questo uno dei tratti più interessanti, e per certi versi sconcertanti, del lavoro di Colucci e Alemanno.
«Potremmo star qui a raccontare per ore, ma solo chi fa il nostro lavoro ci capisce», spiega un operaio, uno di quelli che accetta di parlare, sempre dietro garanzia di anonimato. «Non sanno cos’è la paura di non tornare a casa. Non sanno di noi, delle nostre ansie, delle famiglie a casa», aggiunge qualcun altro. C’è anche lo sfogo di una vedova, all’uscita da un funerale, zittita a stento dai congiunti per carità di patria: «Solo noi, solo noi ti potremo ricordare. Non questa città di figli di puttana».
Conclude Colucci: «Oggi la disponibilità a essere compresi, se c’è, fatica a emergere. In città, nella società, nelle istituzioni. Altrimenti non si comprenderebbe perché un operaio dell’Ilva, primo combattente (e primo caduto) nella guerra per il lavoro sicuro e per l’ambiente pulito, non parla alle messe in cui si parla a loro e di loro, non parla alle manifestazioni ecologiste, non ha diritto di parola: muto e invisibile».
Esatto: perché? Non è solo paura, non è solo la scarsa ricettività dell’ambiente esterno, non è solo l’autoreferenzialità dell’associazionismo, non è solo la rassegnazione. È quasi la rivendicazione dell’ultimo diritto possibile: quello di essere lasciati in pace (anche eterna, a volte): nessuno di voi può aiutarci, ma evitate almeno di prenderci in giro. È forse in questa chiusura, orgogliosa e dolente, che riemerge qualcosa di simile alla vecchia coscienza di classe altrimenti perduta. Significativo, in questo senso, il racconto di Nicola Milfa, pescatore e operaio, curiosa variante ittica di quel metalmezzadro di cui parlava Walter Tobagi: «L’altoforno lo ricordo per il calore. Enorme, impossibile, irresistibile. Mia madre voleva che andassi via dall’Italsider. Per senso di solidarietà verso i colleghi le dissi: lì è come l’inferno, vero, ma siamo tutti uguali; chi lavora con me è un essere umano. Non so dire; sentivo di venir meno a qualcosa, a un segreto patto del fuoco, della polvere. Come sottrarsi a un pericolo e non potevi scaricarlo sugli altri, così, vigliaccamente».
Aggiunge Alemanno: «E non sanno i politici in passerella ai funerali di un morto dell’Ilva quanto ci danno ai coglioni con la loro presenza, con le loro parole di circostanza, con i loro vestiti buoni messi per l’occasione. Con le loro trite frasi. Sono estranei, costoro, non sanno niente di noi, che ci vengono a fare? Verrebbe da gridarglielo in faccia: statevene a casa, non siete graditi qui, per i morti nostri bastiamo noi, che in quelle quattro tavole avremmo potuto essere». Ma poi non glielo grida nessuno.
Viene in mente la solidarietà fra “prima linea” dei protagonisti di Vicolo dell’acciaio, l’ultimo romanzo di Cosimo Argentina. La diffidenza e l’insofferenza verso la “società civile”, l’associazionismo che puzza di carità pelosa, di solidarietà da weekend. Comprensibile, per certi versi sacrosanto. Solo che questo crogiolarsi (il termine non è casuale) in un isolamento tutt’altro che splendido non porta a niente. E si rischia di buttare via il bambino con l’acqua sporca. Di non cogliere, per esempio, che accanto alle “dame di carità” e a chi è solo in cerca di consenso ci sono anche quelli che per l’ambiente e per la sicurezza lottano davvero, in modo appassionato e disinteressato. E che negli ultimi tempi, la sensibilità verso la questione Ilva è cambiata eccome. Per l’“uomo della strada”, a Taranto, vent’anni fa l’Ilva non rappresentava un problema. Dieci anni fa era un problema ma non era risolvibile. Oggi è un problema e va risolto. È il momento di capire come, e di risolverlo. E bisogna farlo con l’aiuto di tutti, anche degli invisibili.
Infine, una citazione per Kurumuny, il piccolo editore salentino che ha dato alle stampe il volume. Un piccolo editore, certo, ma copertina, grafica e carta danno dei punti a molti “grandi”. Non è poco.
Editore: Kurumuny
Pagine: 112
Prezzo: € 10,00
Pubblicazione: gennaio 2011
Giuliano Pavone per Libri Consigliati
L’AUTORE
Giuse Alemanno, scrittore, ha vinto numerosi premi letterari, è stato vicedirettore de «La Voce del Popolo», lavora all’Ilva di Taranto dal 2001.
Fulvio Colucci, giornalista, lavora nella redazione tarantina de «La Gazzetta del Mezzogiorno». Nel 1995 ha vinto il premio “Ilaria Alpi”.
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