9.7.11

INTERVISTA A FULVIO COLUCCI

invisibili














Dopo l’intervista a Giuse Alemanno ora l’incontro con l’altro autore de:
INVISIBILI-vivere e morire nell’Ilva di Taranto”.
Invisibili a 150 metri dalla città, dalla loro città. Sono i lavoratori dell'Ilva di Taranto che quotidianamente si recano nei reparti industriali con il timore di un possibile infortunio. I loro problemi, le loro ansie, i loro desideri sono ai margini di una città ferma e stretta nelle sue contraddizioni.Un microcosmo formato da migliaia di lavoratori provenienti dalla provincia ionica, dal capoluogo e da altre città pugliesi, lucane e calabresi. Il grande impianto siderurgico (una delle realtà più imponenti d'Italia) ha una vita diversa e lontana dalla città nonostante a separarlo dalle prime case del quartiere Tamburi ci sia solo la larghezza di una superstrada.
Le dinamiche tra lavoratori, il ruolo dei sindacati all'interno dell'azienda, il cambiamento di mentalità dalle vecchie alle nuove generazioni di operai sono raccontate con coraggio nel libro “Invisibili. Vivere e morire all'Ilva di Taranto” scritto a quattro mani dal giornalista della Gazzetta del Mezzogiorno Fulvio Colucci e dallo scrittore operaio Giuse Alemanno.
Nell'intervista il reporter, vincitore della prima edizione del prestigioso premio Ilaria Alpi, prende spunto dagli argomenti trattati nel suo libro per riflettere sulle questioni di strettissima attualità che interessano la città: dal referendum, ai movimenti ambientalisti e la vertenza Teleperfomance conclusasi nelle scorse ore.
Taranto e l'Ilva vivono a pochi metri di distanza. Perché ha chiamato i lavoratori “invisibili”?
«Basta vedere ciò che è successo nelle ultime 48 ore (l'intervista è stata registrata il 14 giugno 2011, ndr.). Domenica 12 giugno la commemorazione dei morti sul lavoro celebrata ai Tamburi è stata disertata dalla città. Questo è un deserto civile che coincide con la invisibilità. Sono gli operai stessi che, con una “mutazione genetica” avvenuta durante il cambio di proprietà dell'Ilva, si sono resi invisibili. La città ha accettato di buon grado questa situazione, quasi con sollievo, e oggi non c'è un patrimonio della memoria condiviso».
Una memoria che non viene tramandata dalle giovani generazioni. Questi non vogliono parlare del loro lavoro all'esterno del siderurgico.
«I giovani non vogliono parlare del loro presente perchè, da un lato, considerano il loro come un lavoro fatto non per scelta ma perchè non c'era di meglio. Dall'altro, perchè di fronte ad una città per la quale i morti sul lavoro non contano nulla, meno di una passeggiata a mare, per quale motivo dovrebbero rendersi visibili? Paradossalmente dovremmo pensare che probabilmente provano anche vergogna ma spero non sia così».
Taranto e l'ambientalismo, c'è una nuova coscienza cittadina?
«Un avvenimento che rende la città invisibile dal punto di vista ambientale è il mancato raggiungimento del quorum al referendum. Sia la privatizzazione dell'acqua che il quesito sul nucleare erano due referendum di matrice ambientalista. Poiché questa città si vanta di avere grande sensibilità ambientale, attraverso questo dato riscontriamo che non è vero. L'ambientalismo è un movimento di punta, di pochi al quale si accoda qualcuno. Se non si raggiunge il quorum sul referendum di matrice ambientalista come quello sul nucleare vuol dire che l'ambientalismo a Taranto ha poco seguito, che resta nel recinto di Facebook e non è ancora riuscito a fare il salto di qualità. Anche la grande onda di cambiamento che sta travolgendo il Sud del mondo ha avuto nel social network un grande incubatore».
Perchè le idee lanciate su internet non trovano riscontro nella vita reale?
«Ci sono delle motivazioni strutturali di fondo. A Taranto i giovani sono sempre meno perchè i ragazzi senza lavoro e senza possibilità di crescere culturalmente sono costretti ad andare via. In questo modo la città, il suo tessuto sociale e la intelighenzia non ha ricambio. Inoltre il nostro ambientalismo rimane legato ai protagonismi e alla polemica sulla battuta, sulla frase detta o non detta anziché provare ad aggregare».
Nel libro si parla della figura del metalmezzadro, una persona della media borghesia che tutte le mattine lavorava nell'Italsider e il pomeriggio coltivava la terra o pescava. Perchè i giovani lavoratori pensano al gratta e vinci o alla fortuna istantanea?
«Piace pensare che questi metalmezzadri erano dei protoambientalisti che rimanevano fedeli alla terra, al mare, alle loro passioni. Loro in fabbrica conoscevano il fuoco, la polvere, la devastazione ambientale ma dall'altra parte tornassero a difendere con il loro lavoro il mare e la terra.
Per quegli operai era una necessità antropologica ma oggi c'è stata una mutazione che ha variato il quadro. Non tutti i giovani lavoratori, però, sono stati colpiti dal cambiamento. Alcuni di loro, soprattutto della provincia, continuano a lavorare la terra. Su questo cambiamento ha inciso la spersonalizzazione dell'operaio, oggi meno persona e più goccia nel mare. L'operaio non ha più riferimenti precisi e tende a farsi scivolare il corso degli avvenimenti e la sua vita sociale senza pensare di poter cambiare».
Un punto di riferimento importante poteva essere il sindacato. In passato ha avuto un ruolo importante all'interno della fabbrica. Oggi?
«Quello del sindacato è un passaggio decisivo all'interno del libro: il sindacato è la rappresentanza e la difesa dei diritti dei lavoratori. Negli anni della privatizzazione della fabbrica il dialogo è stato difficile e per certi versi impossibile. L'associazione di categoria si è trovato impreparata all'arrivo del padrone. Inoltre c'è stato un processo di politicizzazione del sindacato che ha contato molto nella sua crisi e le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: per molto tempo ha giocato in difesa, non c'è più quella forza d'urto di un tempo e si bada alle cose pratiche. La storia della palazzina Laf (un reparto nel quale vennero trasferiti alcuni lavoratori ed alcuni sindacalisti a non lavorare per tutto il giorno) spiega lo spiazzamento del sindacato rispetto al nuovo confronto che doveva esserci con la nuova proprietà dello stabilimento».
Lei e Giuse Alemanno avete utilizzato due modi diversi per raccontare la fabbrica: il suo da osservatore esterno e giornalista, quello di Alemanno più interno (lavora nel siderurgico) e letterario. Quanto spazio ha la letteratura all'interno dell'Ilva?
«La mia è una visione esterna e quindi mediata, però non romanzata. Io scrivo sulla base di testimonianze. Il racconto di Giuse è straordinario perchè vive la fabbrica, nessuno ha mai raccontato il polo industriale in questi termini. Nel suo racconto c'è molta realtà e descrive la “fabbrica delle mille fabbriche” perchè ogni reparto dell'Ilva, visto dall'interno, sembra a sé stante. La letteratura può servire all'interno dell'azienda perchè racconta una realtà, inoltre serve allo scrittore operaio per riconoscersi fino in fondo. L'immagine che Giuse dà della notizia, che corre veloce, della morte di un lavoratore è più forte di mille articoli».
Incidenti che, nei giorni scorsi si sono ripetuti.
«Si, purtroppo e recentemente ce ne sono stati due. Non bisogna mai abbassare la guardia. In questi anni l'Ilva ha investito tanto sulla sicurezza ma bisogna fare di più. Inoltre bisogna insistere tantissimo sulla coscienza collettiva e civile della città».
Voi siete stati i primi a parlare in questo modo dell'Ilva e dei suoi lavoratori. Perchè si è aspettato tanto?
«Oggi sul lavoro operaio e sulla tematica ambientale c'è una vasta letteratura, anche di scrittori tarantini. Questo libro sonda in maniera diversa il terreno. Fa capire, ed è triste dirlo, che la città e la fabbrica sono separate».
Nonostante ci siano solo 150 metri di distanza?
«Io sento forte il peso di questa separazione e in questi mesi, muovendomi per presentare il libro, l'ho notata maggiormente».
Mi nasce spontaneo un paragone tra il siderurgico e il call center Teleperformance, che in queste ultime settimane aveva dichiarato oltre 700 persone in esubero. La sede ionica della società internazionale è stata ribattezzata dalle centinaia di operatrici “l'Ilva delle donne”. Secondo lei ci sono punti di contatto tra le due realtà?
«E' difficile dire se ci sono punti in comune ma l'invisibilità è sicuramente una costante. A questa però, i lavoratori di Teleperformance, cercano di ribellarsi. Il rischio invisibilità c'è e rimane per un lavoro che è come una catena di montaggio, senza catene ma con le cuffie».
In chiusura, consigli un libro per i lettori di Blognotesalento.
«“Indignatevi” di Stephan Essel. E' la pubblicazione che ha dato il via al movimento degli “indignatos”».
Un luogo da visitare
«L'India, perchè lì ci sono le nostre radici».
Un evento da vedere
«La mostra su Dalì al Castello Aragonese di Otranto».
Luca Caretta

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